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(Agenzia di cittadinanza, Milano 29.10. 02) 1. Non sapendo chi ringraziare, o con chi prendermela, per avermi affidato l’incarico di parlare a questo convegno, cominceró col prendermela col titolo. Siluppare in modo esauriente le 3 dimensioni, tutte e tre relativamente nuove ed acerbe, che esso propone, supera decisamente le mie capacità che, ve ne accorgerete subito, non sono infinite. In questo momento, mi sento un po’ come in quella scena iniziale di una commedia di Shakespeare che si apre sulla porta d’entrata di una locanda che si chiama “Ai tre asini”. Nell’insegna, di asini ce ne sono peró soltanto due. Shakespeare sembra voler alludere che il terzo asino è lui. Ebbene questa mattina il terzo asino sono io. Quanto agli altri due, scegliete voi chi possano essere. Il sottoscritto si è già accaparrato la sua parte.
2. La post-modernità, e non chiedetemi cosa sia perchè non l’ho ancora capito bene, sembra di sicuro aver diffuso una grande confusione, e cambiato le carte in tavola. Le categorie e i
concetti che fino a ieri ci servivano da trama lessicale per nominare i vari attori sociali e la
stratificazione delle nostre società, i loro interessi, la loro posizione e le loro speranze, ma
anche le loro deboli o forti utopie, sono diventate opache, non parlano più, colpite da
improvvisa afasia. In questa operazione non del tutto innocente di ridefinizione,
declassamento e riclassamento, destra/sinistra, sfruttati/sfruttatori, oppressi/oppressori,
ricchi/diseredati, classi sociali, processi di liberazione, qualità della vita, uguaglianza
sociale.”passés à la trappe”, come si dice in francese, sembrano finiti nella pattumiera della
storia. E nella notte della confusa narrazione che discende dall’avere smarrito lessico e lingua,
sembra sussistere solo l’individuo, l’individuo solo che si racconta in totale solitudine il più
volgare degli scopi di vita: quello di ingrassare il proprio conto in banca, perchè col denaro si
fa tutto, si compera tutto, si cancella e si può ricominciare tutto. Esempio perfetto di un
mezzo - il denaro - che è diventato un fine, anzi il fine. Non c’è scampo per chi non ce la fa,
tutto concorre a farlo sentire indegno di essere ospitato nello sguardo e nel diritto, un
condannato al margine della società. Con l’aggravante che nel frattempo, il margine non solo è
diventato più angusto, ma è stato anche criminalizzato. L’immagine dell’escluso che viene
veicolata non è più soltanto quella di un marginale, ma di un colpevole. Del tutto normale che
il margine faccia sempre più paura sia a chi lo subisce sia a chi lo assegna. A questi resta
tuttavia sempre la velleità di reticolarlo con nuovi dispositivi di sicurezza. “La solitudine del
cittadino globale”, un mix di incertezza e di senso della vulnerabilità, di cui parla Bauman,
non è la stessa per tutti, per gli esclusi ha tutte le caratteristiche di una sporca galera. C’è
quasi da rimpiangere l’ipotesi degli anni ’80, quando si architettava una struttura sociale
composta dal 75% di winners e dal 25% di loosers. Una società, come criticava già Galbraith,
perfettamente democratica (il 75% è una maggioranza confortevole) e perfettamente ingiusta
(come definire altrimenti il fatto di programmare l’esclusione del 25% dei cittadini “uguali e
sovrani”?). Non so se le percentuali tengano ancora, ció che so, invece, è che la prima delle
percentuali è stata soppiantata da una ridotta cricca di signori della finanza, eufemisticamente
chiamata oligarchia finanziaria, e la seconda da “un volgo disperso che nome non ha”.
3. Potrei continuare a lungo questa generica descrizione, non certo priva di drammatica oggettività, forse peró è più utile che si cominci ad affrontare il tema che mi è stato assegnanto. Anche per onorare il principio che recita: “quando il giorno scivola nella notte, invece di maledire le tenebre è sempre meglio accendere una luce”. Non senza ricordare quello che scriveva uno che non è stato esattamente un maestro di ottimismo, F.Nietsche: “laddove cresce il pericolo, fa capolino anche ciò che puó salvare”.
La minaccia ecologica che grava sul pianeta, una mondializzazione selvaggia che procede senza remore e senza regole, il crescente divario del potere d’acquisto tra gli “have” e gli “have not” dei paesi ricchi e l’aggravamento del differenziale economico tra gli standards di produzione e di consumo dei paesi definiti sviluppati e i paesi sottosviluppati, ma anche la problematizzazione di un sistema democratico ingessato che sembra sempre più addossato alle sue aporie, stanno gettando sulla metafora ottimistica del villaggio globale un’ombra severa. Un’ombra che mette in luce le contraddizioni visibili, quando non ostentate, del sistema di valori che lo regge. Improvvisamente ciascuno di noi, rinviato alla sua piccolezza e alla coscienza infelice di non avere alcuna possibilità di influire su un ordine delle cose deciso altrove, si rifugia nel consolatorio“parva sed mea”, semplicemente per non perdere l’illusione di avere ancora un residuo controllo sulla propria realtà. A poco a poco, ci sentiamo restituiti alle dimensioni primitive delle nostre esperienze, al nostro fazzoletto di terra, al metro quadrato delle nostre relazioni primarie a cui non resta che giocherellare ai bordi delle autostrade dell’informazione e resistere, come si puó, alle socialità labili del NET.
1. Parlare di comunità locale in queste condizioni non risulta più anacronistico perchè incrocia ormai la lama di fondo di un ambiguo ritorno della dimensione locale. Un’ambiguità sulla quale converrà investire intelligenza e lavoro perchè il locale non venga ridotto al minuscolo orizzonte di una calda ma sterile impotenza. Se la dimensione locale intende ancora essere propositiva, deve restare disponibile alla impressionante mobilità geografica del nostro tempo e alla stimolazione delle informazioni che ci giungono in tempo reale da ogni angolo del pianeta. Valorizzare il locale va bene, a condizione che si tratti di un locale che sa dar vita e rilievo a quello che una storia lontana e recente, di cui sovente si è purtroppo persa memoria, vi ha pazientemente inscritto. Solo all’interno di una memoria rivisitata alla luce delle sue successive aperture, la comunità locale puó trasformarsi in un sensore diffuso del divenire umano e in un concretissimo mondo di vita che firma con gli universali, che salgono dal suo vissuto, un provvisorio armistizio dialettico tra il tutto e i suoi frammenti. Ma per far questo bisognerà uscire dal mito di un locale naturalizzato, atemporale, archetipale. Bisognerà accedere ad una concezione del locale come microcosmo, dove risuonano, vivono e si risolvono, su scala certo più ridotta ma non immaginaria, le difficoltà di un mondo che, mai come oggi, si presenta come una comunità di destini. Senza la promessa di vivere insieme il viaggio cui sono chiamate le nostre storie, la fiducia di poter condividere il pianeta e la capacità di leggersi in sintonia con l’avventura umana dove memoria e fedeltà si declinano insieme, la comunità locale si trasforma facilmente in una pericolosa polveriera identitaria, in un minaccioso coktail di identità aggressive. In un “brodo di cultura” di odio e di inconciliabili discriminazioni. Ogni comunità locale è chiamata insomma a svolgere il ruolo insostituibile di primo anello forte di un processo di mondializzazione che non vuole omogeneizzare, ma riassumere; non appiattire ma articolare; non cancellare ma sussumere e fare dell’umanità, con le sue infinite colorazioni, un bouquet di differenze. La comunità locale dovrebbe tendere a diventare quello che è chiamata ad essere, una società in miniatura che sa unire senza confondere e distinguere senza separare.
5. La necessità di lavorare in rete è apparsa in epoca relativamente recente e la metodologia necessaria per la sua riuscita è tuttora in istanza di elaborazione. Almeno nei paesi di lingua francese che conosco un po’ per averci vissuto trent’anni, si cominció a parlare di rete alla fine degli anni ’70. Vista a posteriori, la necessità di lavorare in rete rappresentó, in quegli anni, non solo una via di uscita dal fallimento diventato evidente dei vari centralismi, dalla crisi avanzata dei sistemi gerarchici apparsi, burocratici, lenti, ciechi portatori di pura solidarietà meccanica, ma anche la valorizzazione della contestuale affermazione di una miriade di iniziative settoriali o locali che, dopo un ostinato lavoro underground e un difficile esercizio di solidarietà organica, cercavano di socializzare analisi e buone pratiche, di verificare a livello più esteso le soluzioni funzionali trovate, di elaborare nuovi pezzi di utopia, di articolarli con altri pezzi esperiti altrove per testare se insieme potessero avere la completezza e la organicità di un sistema duttile e disponibile ad una costante evoluzione. La metodologia conteneva già in nuce i principi che potevano renderla non solo vincente, ma alternativa e salutare. Concretamente: a. un processo di elaborazione di un sistema rigorosamente induttivo che accettava e valorizzava l’avanzare, come suggerisce Popper, per “ tentativi e errori” e esprimeva un’attenzione critica alla realtà diventata complessa, cercando di non dimenticare nell’agire sociale nessuna piega della realtà, ivi comprese le dimensioni irriducibili del vissuto anche quando queste potevano mettere in crisi convinzioni e risultati. b. Un presupposto non negoziabile di uguale dignità tra i partner, i quali, forti della propria esperienza concreta e convinti che nessuno è sopra o sotto un altro per diritto inalienabile, camminavano nell’ipotesi che ogni partner contribuisce a suo modo a dare verità e spessore all’agire sociale. I partner sentivano cosí di fare parte di una virtuale tavola rotonda attorno alla quale si metteva in comune e si socializzava la ricerca di promozione degli individui in una società a misura di cittadino. Era diventata convinzione condivisa che l’agire sociale non sopportava letti di Procuste, nè “prêt à porter”. Non sfuggirà a nessuno che il presupposto antropologico di questo principio riposa sull’intrinseca fecondità del pluralismo, di cui, alla fine degli anni ’70, si cominciava timidamente a parlare.
c. La promozione di uno scambio continuo di informazioni, di valutazioni, di motivazioni, di risultati, ma anche di insuccessi nonchè delle condizioni operative che avevano reso possibili i primi e propiziato i secondi. Nella dinamica dello scambio tra uguali diventa inammissibile barare, pena diventare il buco nero della rete e uscire dalla fecondazione che essa permette e favorisce.
Induttività, pari dignità, dialogo e affidabilità reciproca continuano ad essere gli ingredienti che fanno funzionare bene una rete e ne assicurano un forte valore aggiunto per tutti i componenti e spesso al di là di essi.
6. L’Europa non è, nè puó essere, una realtà avulsa dalle dinamiche, dalle tensioni e dalle evoluzioni che ho cercato di descrivere. Ne è anzi la cassa di risonanza, l’ambito di scontro e di soluzione più alto e più completo, lo spazio di diffusione di ció che nasce e di resistenza di ció che non vuole morire. Una lente di ingrandimento dei difetti delle società che intende unire, ma anche dell’uguaglianza e del rispetto che nasce da una più approfondita conoscenza tra i popoli. Le sole vittime dell’unità europea sono, a tutt’oggi, gli stereotipi che finora hanno permesso l’economia della conoscenza tra le culture europee e avvelenato i rapporti tra le comunità che le esprimono. Criticare l’Europa perchè migliori è necessario e doveroso, demonizzarla perchè non è la panacea di tutti i mali è infantile e ingeneroso. Sarebbe bene ricordare sempre e a tutti che l’Europa è stata il più bel sogno collettivo che in questi 50 anni ha saputo darsi questa parte del mondo, l’istituzione che ha garantito alle nostre contrade il più lungo periodo di pace dall’impero romano in giù e reso possibile il più sostenuto trend di benessere mai conosciuto. Sarà anche bene non dimenticare infine che a livello dei nuovi grandi insiemi geopolitici, l’Europa delle patrie mette in campo degli Stati-nazione che sono troppo grandi per i piccoli problemi e troppo piccoli per i grandi. Anche unita, l’Europa, che rappresentava alla fine dell’800, il 25% della popolazione mondiale, non ne rappresenta che l’11% all’inizio del 2000. Detto questo, converrà anche aggiungere che se all’inizio dell’unità d’Italia ci si era potuto dare come plausibile programma “l’Italia è fatta, ora facciamo gli italiani”, le cose non andranno allo stesso modo con l’Europa. L’Europa si farà con lo stesso ritmo con il quale si faranno gli europei, pena morire nell’Europa delle quote, del diametro delle uova e delle egemonie nazionalistiche di alcuni Stati che, chissà perchè, continuano a pensarsi più uguali degli altri. Come amava dire J. Delors, i popoli non fanno l’amore con un mercato, anche se largo, nè con una moneta unica. Un interesse puramente alimentare non ha mai fatto sognare nessuno e di sicuro non basterà a tenere i tempi lunghi e a sostenere la lunga pazienza che domanda il complicato processo di una vera unificazione europea. Quello degli Stati europei sarà anche un matrimonio di ragione fin che si vuole, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che il processo di unificazione europea ormai raggiunge e inquieta profondamente l’intimità dei popoli coinvolti. Il gioco delle identità si fa inevitabilmente plurale e la pluralità ne cambia le regole. E a proposito di intimità dei popoli, diventerà sempre più importante imparare a fecondare l’esclusività dei rispettivi spazi simbolici per progettare una patria comune e non solo una reversibile zona di libero scambio.
Se questo è, le comunità locali che sanno davvero pensare globale e agire locale e le organizzazioni di rete aperte e cooperanti possono rappresentare dei fattori di reciproca conoscenza, di avvicinamento, di trasparenza e di creazione di un comune sentire tra popoli segnati da lingue diverse e da una lunga storia che ha costruito una identità di popoli non accanto agli altri, ma quasi sempre contro. Considerata la dimensione dello spazio europeo, la sua distribuzione su un territorio che va da Capo Nord a Cipro, da Helsinki a Gibilterra, non è difficile capire che la natura dell’umore e del colore locale, cosí legato alla geografia e cosí differenziato dalla storia, avrà delle escursioni espressive difficilmente intelligibili senza la mediazione di reti connettive sempre più fitte e capaci di un lavoro non solo di confronto operativo ma anche di profondo interpretariato culturale. Il difficile, infatti, non è tanto imparare le lingue per capirsi quando ci si parla, ma leggere i silenzi, interpretare la complessa semiologia del linguaggio analogico. Quegli interstizi del non-detto che sfumano, arricchiscono o temperano la digitalità della parola e che permettono di leggere sulle pieghe del volto l’indice di gradimento dell’accordo o del disaccordo espressi. Di comprendere, insomma, se l’accordo o il disaccordo vanno a braccetto con l’adesione dell’anima. Capire i silenzi vuol dire risalire agli impliciti, sapere navigare nelle profondità del rimosso dove si decide la qualità della relazione. E’questa sottile capacità che darà rilievo alle varie comunità locali e farà funzionare le reti, ma soprattutto deciderà se l’Europa sarà un continente serale dove tutto si spegne nel grigiore di uniformità burocratiche, come sembra suggerire il suo nome nato ad oriente, oppure un insieme istituzionale ed umano che sa contribuire a una nuova primavera dell’umanità.
ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO DI GRUPPO SUL TEMA
“COMUNITA’ LOCALE, LAVORO IN RETE, EUROPA
1. Un momento iniziale di possibili domande per rendere più chiara la comprensione dell’intervento della mattinata di Bruno Ducoli o un suo rapido approfondimento. Restituzione della risonanza personale da parte dei partecipanti che lo desiderano.
2. Testimonianze di buon funzionamento o disfunzionamento di alcune comunità locali esperimentati o ben conosciuti dai partecipanti. Quali condizioni hanno reso possibili i primi o propiziato i secondi? 1. Esempi di successo o di insuccesso di alcune reti, nazionali o europee, proposte dai partecipanti che hanno avuto l’occasione di osservarli dal di dentro. Elementi di analisi del perchè dei primi e dei secondi.
2. Perchè l’Europa non resti una “scatola nera”, come articolare efficacemente comunità locali, reti e Europa? Quale potrebbe essere il “valore aggiunto” del tipo di funzionamento ipotizzato? Quali i rischi da evitare e quali le attitudini da promuovere e perchè?

Source: http://www.centroeuropeo.info/images/Partenariatoereti.pdf

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How do doctors decide whether it is appropriate to investigate and treat people with VTE and advanced cancer? Sheard L1, Dowding D2, Noble S3, Prout H3, Maraveyas A4, Watt I1, Johnson MJ4,5. University of York1, University of Leeds2, University of Cardiff3, University of Hull4, Hull York Medical School5 Background : Long-term low molecular weight heparin Method : Think aloud sce

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