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Il linguaggio della violenza
e lo spirito di
riconciliazione.
Dal mondo chiuso della tortura alla sfera pubblica della
giustizia restaurativa

Consentitemi di iniziare con la testimonianza di Zubaydah: le percosse aumentavano e mentre ero immobile nella mia cella le guardie mi gettarono addosso acqua fredda con una pompa. Il giorno peggiore fu quando venni picchiato da un carceriere per circa mezz’ora di fila. La mia testa veniva sbattuta contro un muro in maniera tanto violenta da cominciare a sanguinare. Acqua fredda veniva gettata sulla mia testa. Tutto ciò si ripeteva poi con altri carcerieri che mi interrogavano. Alla fine mi portarono via per una sessione di “tortura dell’acqua”. La tortura di quella giornata cessò finalmente con l’intervento di un dottore. Mi fu concesso di dormire per circa mezz’ora e in seguito venni nuovamente sbattuto nella mia cella con le mani ammanettate sulla testa2. Questa testimonianza di una vittima di torture descrive le percosse fisiche e la presenza degli interroganti; come vedremo in seguito, l’inflizione del dolore fisico e l’atto dell’interrogatorio verbale sono due componenti indispensabili della tortura. La testimonianza di Zubaydah, dobbiamo sottolinearlo, non è tratta dalle prigioni sotterranee dell’antico Impero Romano o dalle stanze dell’Inquisizione del XV secolo; non è nemmeno tratta dai centri di detenzione segreta di Stalin o dalle celle seminterrate della Gestapo. Questa è la testimonianza di un uomo soggetto alla tortura in nome della democrazia. In quanto cittadino saudita, egli è stato arrestato nel 2002 a Dubai e sottoposto dalle forze americane a questo interrogatorio. La tortura, come cercherò di mostrare, è una forma di linguaggio della violenza particolarmente crudele: è onnipresente e diffusa. Per contrapporci alla segretezza che circonda la tortura politica, come suggerirò più avanti, dobbiamo impegnarci in un altro tipo di linguaggio che denunci pubblicamente le violazioni dei diritti umani e intraprenda dei percorsi di correzione del male sociale. Esso è il linguaggio della riconciliazione e della giustizia restaurativa. Questo linguaggio va al 1 Björn Krondorfer è Direttore del Martin-Springer Institute e insegna Religios Studies presso la Northern Arizona University. 2 Citato in Danner 2009. «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 di là degli ambiti esclusivamente giuridici e dei modelli di giustizia retributiva, impegnandosi piuttosto nell’affermazione di imperativi etici che sono alimentati dal potere trasformativo della religione. Questo saggio, dunque, indica l’intersezione tra diritti umani e religione giustapponendo al mondo chiuso della tortura (intesa come una delle più radicali forme di violenza politica) lo spazio pubblico della giustizia restaurativa. 1. Violenza politica radicale, discernimento morale e sforzi restaurativi Per quanto riguarda il sostegno e la difesa dei diritti umani, impernierò il mio ragionamento etico sulla capacità umana di raggiungere la conoscenza del bene e del male. Per quanto la definizione dei contorni precisi del bene e del male sarà sempre un’impresa controversa, la capacità umana di discernimento morale fa tutt’uno con la responsabilità di prendere parte a un regime discorsivo che cerca di determinare la differenza tra le buone e le cattive scelte. In quanto partecipi di un tale regime discorsivo, non ci si può permettere di diventare compiacenti e accondiscendenti, ma occorre contribuire auto-criticamente e riflessivamente all’interno della comunità dialogica. In altri termini, l’imprecisione che potremmo incontrare durante la ricerca dei valori ultimi non ci assolve affatto dalla responsabilità di indirizzare i nostri atti verso il bene e di sottrarsi e resistere al male. Allo stesso tempo, abbiamo bisogno di essere modesti nelle nostre ambizioni di salvare il mondo, riconoscendo che – nel quadro delle violazioni dei diritti umani – noi possiamo spesso fallire nel tentativo di evitare il darsi della violenza o di ostacolare il compimento del male. Ciò che possiamo fare, a ogni modo, è reagire alle situazioni di offese che arrecano danno allo scopo di restaurare; ed è a questo punto che la nozione di giustizia restaurativa entra in gioco. La giustizia restaurativa non è (perlomeno non innanzitutto) un meccanismo preventivo, ma è uno sforzo di mitigare, alleviare e sanare offese passate rimanendo all’interno dei limiti della nostra umana contingenza. Tra i mali che richiedono il nostro responso morale e lo sforzo restaurativo ci sono quelle che io chiamo le forme radicali di violenza politica. Con “radicali” intendo quelle forme di violenza coercitiva che sono spietate, sistematiche, intenzionali, gravemente dannose, spesso letali e ideologicamente legittimate. Esse ricadono all’interno del regno di quegli atti che la filosofa femminista Claudia Card ha definito «danni prevedibili e intollerabili prodotti da offese colpevoli» (Card 2002, 3). Tra queste forme radicali di violenza politica, intendo indicarne brevemente quattro. Il primo e forse più moderno tipo di violenza politica radicale è il genocidio e, in casi come la Cambogia (si veda Hinton 2005), l’auto-genocidio3. Poiché lo 3 Se gli omicidi a stampo genocida siano o meno un fenomeno prettamente moderno è discutibile, per quanto la letteratura collochi l’origine del genocidio soprattutto nell’Olocausto o nello sterminio precedente all’Olocausto degli Armeni in Turchia e degli Herero nell’Africa meridionale (si vedano Currey 2010, Jacobs 2009, Cooper 2009, Carmichael 2009, Totten et. Al. 2004, Rosenbaum 2001). «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 scopo è di annichilire, parzialmente o del tutto, un mirato e identificabile gruppo di persone, gli sforzi restaurativi devono avvenire su multipli livelli e non si esauriscono nel giro di una generazione. Per annullare i traumi comuni e individuali che hanno causato, i genocidi richiedono un impegno multi-generazionale. Dato che il linguaggio del genocidio è quello dell’annichilimento, il linguaggio restaurativo deve essere quello della salvezza sociale, intesa in senso lato tanto come commemorazione della morte, quanto come sostegno ai superstiti, attraverso l’amore che afferma la vita e ricostruisce la comunità. Il secondo tipo di violenza radicale è la pulizia etnica. Come il genocidio, la pulizia etnica (o le guerre etno-nazionali ed etno-religiose) prende di mira gruppi specifici, ma è più piccola in scala, anche solo rispetto ai termini limitati della sua estensione geografica o degli strumenti della sua messa in atto (per esempio, l’espulsione piuttosto che l’annichilimento; si veda Mojzes 2009). La pulizia etnica intende cancellare la presenza dei gruppi indicati come indesiderati, compresa la cancellazione dei segni distintivi di tipo religioso e architettonico (come nei conflitti balcanici; si veda, per esempio, Sells 1996). Dato che il linguaggio della pulizia etnica è quello della cancellazione, la risposta restaurativa dovrà usare quello della memoria, del lutto e della restituzione (simbolica). Il terzo tipo di violenza politica radicale è quello degli atti spettacolari, vale a dire degli atti di crudeltà compiuti pubblicamente. Come indica la parola “spettacolari”, questo tipo di violenza ha bisogno di essere vista. La violenza spettacolare è una messa in scena di estrema violenza deliberatamente ritualizzata. Gli spettacoli pubblici sono stati messi in atto in vario modo per instillare paura, per mantenere l’ordine sociale e cosmico, ma anche per intrattenere. Possiamo pensare agli spettacoli nei colossei romani (Plass 1995; Futrell 1997; Kyle 1998), agli spettacoli medievali di dolore e punizione (Merback 1999; Enders 2002; Mills 2005), all’Auto-da-fé dell’Inquisizione (Kamen 2009), o agli spettacoli di linciaggio negli Stati Uniti (Wood 2009; Allen 2000). Nel caso del linciaggio, per esempio, la pubblicizzazione viene cercata prima, durante e dopo lo spettacolo della violenza. Il linciaggio degli uomini afro-americani – almeno 2.500 americani di colore furono linciati tra il 1880 e il 1930 – non avvenne mai in segreto. Gli episodi di linciaggio furono annunciati a livello locale e regionale, e furono presenti gruppi consistenti di spettatori. Amy Louise Woods scrive in Lynching and Spectacle [Linciaggio e spettacolo] (2009) che il linciaggio era «spesso deliberatamente spettacolare e ritualizzato» e «frequentemente reso pubblico […] attraverso la messa in mostra di corpi linciati e souvenir» come «fotografie», «canzoni» e «narrazioni sensazionali», tempo dopo che gli omicidi erano stati compiuti. Le famiglie bianche si spostavano volentieri per tali eventi proprio come per un’uscita in vista di un picnic di domenica pomeriggio. Gli spettatori scattavano fotografie di se stessi in pose sorridenti a fianco degli uomini mutilati e castrati e dei corpi bruciati. Trasformavano queste foto in souvenir e Tuttavia, possiamo sostenere con certezza che gli omicidi a stampo genocida sono diventati, nella modernità, estremamente efficaci in seguito al progresso delle tecnologie e la presenza di un apparato burocratico di stato. «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 cartoline da spedire agli amici e alle famiglie che non avevano potuto essere presenti. Il linciaggio, dunque, è un moderno esempio del linguaggio spettacolare della violenza, dove la crudeltà non è in alcun modo negata e nascosta, bensì deliberatamente impiegata al servizio del mantenimento in vita dei sistemi politici. Nei casi di violenza spettacolare, il linguaggio restaurativo non può restare privato ma deve essere deliberatamente pubblico, a partire dal rifiuto pubblico di partecipare, dalla condanna pubblica e, infine, da atti pubblici di riconciliazione. Il quarto e ultimo tipo di violenza radicale che intendo qui richiamare è la tortura politica. In quanto opposta alle forme spettacolari di violenza radicale, la tortura si svolge in luoghi segreti. Può essere risaputo (pur sotto forma di mero “chiacchiericcio”) che la tortura è parte dell’arsenale coercitivo di un determinato stato-nazione (per quanto comunque sempre negata dai funzionari dello stato), ma essa funziona con successo solo se si svolge in spazi chiusi. Dato che lo scopo della tortura politica è costringere ad ammissioni di colpa private attraverso un’inflizione di mali che avviene in aree di detenzione completamente chiuse, il linguaggio restaurativo deve essere quello della rivelazione: portare la luce nelle camere di tortura, ridare voce alla vittima e, infine, rivelare al pubblico e al torturatore stesso la portata della colpevolezza di quest’ultimo. Mi sia concesso di prendere le mosse da un’osservazione di carattere generale, ossia che i sistemi politici e le comunità religiose condividono il fatto di pretendere alla verità. Entrambi rivendicano il fatto che la natura della loro legittimità è la verità inalienabile e che questa affonda le sue radici in un qualche fondamento incontrovertibile. Mentre i sistemi politici sostengono la loro autorità con miti di fondazione nazionale e con fondamenti ideologici, le comunità religiose si riferiscono per le loro pretese di autorità morale a una qualche verità divina o cosmica. Di conseguenza, i sistemi politici e le comunità religiose giustificano i diversi modi in cui tengono in vita il loro ordine proclamato. Tuttavia, i regimi politici e le istituzioni religiose sono spesso ignare del carattere funzionale delle loro rivendicazioni di verità ultime. Tendono a negare il carattere di come se delle loro costruzioni-di-mondo e si mettono sulla difensiva quando il loro presunto ordine immutabile diviene instabile: quando, per esempio, un sistema politico è minacciato internamente o esternamente o quando il potere esplicativo di un universo religioso viene indebolito. Nel caso della religione, quando il suo potere esplicativo viene meno, leader e movimenti religiosi neo-emergenti proclamano con la massima sincerità nuove verità religiose. Possiamo accorgerci di questo oggi prendendo a riferimento i tanti movimenti fondamentalisti emergenti nelle religioni di tutto il mondo. Armati di convinzioni pie, i riformatori religiosi e i guerrieri santi svolgono il loro compito con la massima sincerità, sostenendo che solo i loro oppositori sono alle prese con un mondo falso. Nel regno politico, i regimi «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 instabili si impegnano in elaborate giustificazioni dei mezzi spesso violenti che impiegano per mantenere l’ordine; siccome il male che infliggono è compiuto in nome dell’emergenza politica, negano che la violenza perpetrata sia moralmente sbagliata. Quando, infine, le ideologie politiche e religiose si fondono in un sistema autoritario, la pretesa di verità assoluta del sistema diventa totalizzante – una situazione che è incline a una violazione dei diritti umani in nome della necessità politica e perpetrata senza alcuno scrupolo morale. Il linguaggio della violenza e della coercizione regna nei sistemi politici e religiosi deboli. Voglio ora concentrarmi sulla tortura politica come forma di violenza radicale, in quanto essa rappresenta un esempio particolarmente malizioso di un tale linguaggio della violenza. Esso è un “linguaggio” perché la tortura è a tutti gli effetti un mezzo di comunicazione. La tortura forza i prigionieri a confessare una verità che non è la loro – ma che, alla fin fine, viene fatta passare come se fosse vera. Come può avvenire tutto questo? Possiamo notare che la tortura politica si compone sempre di due elementi intercorrelati: in primo luogo, c’è l’interrogatorio, vale a dire lo scambio di atti verbali fra la vittima e il torturatore; in secondo luogo, c’è l’inflizione di dolore, che è l’atto unilaterale di male intenso imposto dal torturatore. L’interrogatorio verbale, con il suo supposto scopo di ottenere informazioni accurate, giustifica il male fisico e, facendo questo, nega la gravità del male inflitto. In altre parole, i sistemi politici che si affidano alla tortura si rendono ciechi di fronte al grave male che infliggono alle persone in nome della necessità e della verità. Nel suo libro del 1985 The Body in Pain [Il corpo in sofferenza], Elaine Scarry sostiene in maniera convincente che la tortura politica, dal punto di vista del torturatore e del sistema di tortura, nega ciò che essa stessa produce: il dolore. La tortura politica, scrive Scarry, nega la realtà del dolore proprio rendendolo visibile e neutrale, attraverso un linguaggio di sincerità e necessità apparentemente legittimo e oggettivato. L’atto verbale dell’interrogatorio si rende necessario per comunicare al torturatore gli effetti del dolore inflitto alla vittima. L’unico modo per il torturatore di sapere che la vittima sta soffrendo è di far parlare il prigioniero. La tortura, pertanto, è una forma di linguaggio: rende visibile e comunicabile nella camera di tortura il dolore invisibile. Per il torturatore, il dolore è trattato non alla stregua di un’esperienza soggettiva della vittima, ma di un mezzo oggettivo per comunicare la “verità”. Per il torturatore, le domande che sta facendo sono incontestabilmente necessarie: egli vuole una confessione (anche se una tale confessione non riflette chi davvero la vittima è o cosa la vittima a tutti gli effetti fa). Per le vittime, le domande dell’interrogante che le tortura sono rilevanti solo in prima battuta, perché nel corso della tortura esse diventano completamente irrilevanti, mentre il dolore che provano rimane incontestabilmente reale. Questo segna l’enorme e incolmabile distanza fra il torturatore e la sua vittima. Il dolore è tanto schiacciante da distruggere tutto ciò che una vittima ha considerato come costitutivo del proprio mondo – con il risultato «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 che, in ultima istanza, le vittime diventano disponibili a testimoniare contro se stesse. La tortura funziona efficacemente solo in spazi segreti e chiusi. Per far procedere l’interrogatorio, la vittima deve essere del tutto separata dal suo mondo abituale. Una volta che il mondo della vittima sia stato completamente distaccato dalla realtà e così distrutto (tanto attraverso la distruzione fisica del corpo quanto tramite la distruzione psicologica della mente), la vittima è pronta a “confessare” in una maniera tale da essere sufficiente per il sistema di tortura a provare la sua colpevolezza. La tortura giunge al termine solo nel momento in cui infine il sistema di tortura confonde le confessioni, che le vittime fanno contro se stesse, con la “Verità”. Solo allora c’è spazio per il processo legale e la pena ufficiale4. Consentitemi di ripetere: il compito del torturatore è di rendere le domande innegabilmente reali anche per la vittima, attraverso un processo di graduale distruzione del corpo e della mente. Infine, il torturatore è soddisfatto dalle risposte che riceve, mostrando a se stesso il successo dei suoi sforzi sinceri e necessari. È così convinto di aver scovato un altro terrorista islamico, un altro comunista, un’altra strega, un altro agente anti-sovietico. Per il torturatore, la percezione della realtà dipende dalla produzione di tali “confessioni sincere” da parte della vittima, per quanto la confessione possa essere falsa e irrilevante. La tortura non lascia spazio ad alcuna ambiguità, ed è per questo che nella tortura politica le vittime non sono mai innocenti. Il torturatore e il suo sistema negano di aver creato una verità fittizia tramite le confessioni auto-incriminanti delle vittime, perché il torturatore deve convertire l’esperienza soggettiva della sofferenza della vittima in una pretesa di verità oggettiva e totalizzante. Pertanto, il mondo chiuso al cui interno può prosperare la tortura è un esempio estremo del linguaggio della violenza impiegato dai regimi oppressivi e coercitivi, come l’Inquisizione nell’Europa tardo-medioevale o le dittature politiche moderne. La tortura come linguaggio della violenza viene usata per tenere in vita un sistema ideologico; essa può essere persino applicata in nome della democrazia, come avvenuto negli Stati Uniti in seguito agli eventi dell’11 Settembre del 2001. Già sei mesi dopo questi eventi, nella primavera del 2002, per la prima volta alcuni degli studenti americani del mio corso di Religious Studies, incentrato sulla violenza o non-violenza, discutevano sull’uso legittimo della tortura per proteggere la democrazia. Siccome si sentivano minacciati, la tortura diventava improvvisamente per loro un’opzione percorribile. 4 Per un esempio contemporaneo si veda l’analisi di Gilmore (2006) di Abu Graib in Iraq; per un esempio storico, si veda il lavoro di Glucklich (2001) sull’Inquisizione spagnola. «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 In opposizione a un linguaggio della violenza che giustifica se stesso con la necessità di tenere in piedi sistemi instabili (sistemi che nonostante tutto cercano di fondarsi su pretese di verità ultima), dobbiamo trovare un linguaggio alternativo che contrasti qualsiasi simile giustificazione di gravi offese. Una possibilità di contrastare il linguaggio totalizzante della violenza è quella di impiegare valori che sono fondati su un differente ordine di pretese di verità, come le rivendicazioni di diritti divini e inalienabili motivate religiosamente e moralmente. Nel mezzo di realtà controverse che sono inclini alla violenza, la risorsa più efficace da opporre al mondo chiuso della tortura o ad altre modalità di violenza politica radicale è avanzare contro-pretese religiose. Le persone che avversano la violenza politica radicale spesso si ispirano a una forma alternativa di sincerità e di verità: facendo appello alle proprie convinzioni religiose e morali, cercano di delegittimare le pretese di verità di coloro che violano i diritti umani, i quali impiegano spudoratamente la violenza in nome della necessità. Contro i sistemi che violano i diritti, gli oppositori formulano una visione alternativa della verità che non è negoziabile. Come scrive Amy Louise Wood a proposito della storia americana del linciaggio, «gli attivisti anti-linciaggio […] si affidano alla testimonianza per trasmettere una verità alternativa riguardo al linciaggio» (Wood 2009, 5). Tali pretese di una verità alternativa lavorano senza dubbio in direzione della riduzione del male e contribuiscono ad aiutare le comunità nella transizione verso una fase meno violenta. La giustizia restaurativa, a ogni modo, elude nel complesso le pretese assolutizzanti di verità (perché il suo compito non è né la prevenzione, né il castigo). Invece, essa si serve di meccanismi orientati alla ricerca della verità radicati nello spirito di riconciliazione. Quando, per esempio, un regime che ha commesso atti di enorme violenza viene rovesciato militarmente (come nel caso della Germania nel 1945) o viene politicamente trasformato (come nel caso del sistema di Apartheid in Sud Africa), sono proprio le pretese di verità del vecchio sistema a essere messe in discussione. Questo è il momento in cui la giustizia transizionale diventa rilevante. La giustizia transizionale è lo sforzo compiuto nelle società transizionali per porre rimedio alle offese precedentemente compiute (si vedano, per esempio, Teitel 2003, McAdams 1997, Kritz 1995). A essere oggetto di negoziazione è un mutamento di paradigma che concerne i valori fondamentali. Ciò che ieri poteva esser sembrata una necessità politica (come rapimenti, imprigionamenti, mutilazioni, uccisioni), appare ora come follia o completa crudeltà. Per esempio, le elaborate giustificazioni naziste per sterminare tutti gli ebrei, cui così tante persone credevano e davano sostegno negli anni ’40 del Novecento, dopo il 1945 sembravano pura e semplice pazzia genocida o profonda patologia culturale. O prendete i sostenitori dell’Apartheid, che pensavano di essere impegnati in una guerra necessaria, ma «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 segreta contro la maggioranza di colore e l’ANC [African National Congress]; dopo il 1994, sembravano nient’altro che razzisti deliranti e assassini squilibrati5. La capacità, e la conseguente responsabilità, di riconoscere il bene e il male è data con il dovere dell’uomo di ergersi a giudice dei propri atti, e nulla più dei casi di violazione dei diritti umani, lungo tutta la gamma delle forme radicali di violenza politica, fa sembrare appropriata l’istituzione di un processo. In queste situazioni, la giustizia retributiva è appropriata e giustificata, specialmente quando cerca di andare al di là della sua fedeltà alla giurisdizione nazionale, secondo l’esempio della Corte Internazionale di Giustizia di Den Haag. A ogni modo, le società transizionali – vale a dire quelle società che hanno appena rovesciato un regime illegittimo ma non hanno ancora del tutto istituito nuove strutture governative e giuridiche – possono facilmente ricadere nell’errore di sviluppare il proprio insieme di pretese assolutizzanti di verità, allo scopo di esercitare una giustizia basata esclusivamente su castigo e punizione. Di conseguenza, la giustizia retributiva di per sé non è abbastanza per aiutare una società a fare dei passi in avanti, soprattutto quando siamo alle prese con diffuse violazioni dei diritti umani in un precedente sistema politico. Dal canto suo, il linguaggio della giustizia restaurativa ci rende consapevoli del fatto che la giustizia retributiva tradizionale può non essere l’unica e sempre migliore risposta. Nelle ultime decadi, il concetto di giustizia restaurativa ha visto crescere la sua importanza a livello internazionale come visione alternativa, soprattutto dopo l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana nel 1995 (per esempio, Roht-Arriaza-Mariezcurrena 2006, Philpott 2006, Hayner 2002, Kiss 2000, Minow 2000). La giustizia restaurativa opera soprattutto al di fuori delle strutture giuridiche tradizionali: essa utilizza una vasta gamma di approcci per cercare di riparare alle offese passate. Il vantaggio della giustizia restaurativa è che essa evita ai suoi fautori di cadere nella trappola dell’enunciazione di un nuovo insieme di pretese totalizzanti di verità. La giustizia restaurativa – dovendo ricercare la giustizia alla luce delle gravi offese del passato – non nasconde ai propri occhi le ambiguità degli attori umani e le zone grigie delle realtà politiche. Essa accetta – in una certa misura – le diversità in merito all’accertamento di valori politici, religiosi e morali controversi. È un fatto interessante che i molti gruppi a difesa dei diritti umani, le ONG e tutti gli individui che sono impegnati a ripristinare la pace e la riconciliazione nelle sedi istituzionali della giustizia transizionale, sono molto consapevoli della limitatezza del loro potere. Leggendo la letteratura sulla giustizia transizionale è sorprendente notare come gli avvocati della giustizia restaurativa, che si sforzano sul serio, sono ugualmente consapevoli della natura controversa della loro impresa. Sanno che la giustizia totale è un ideale regolativo e che può essere realizzata solo la giustizia parziale. Operano adottando una visione della giustizia come se: una visione secondo cui questa non può mai essere compiuta sino in fondo. 5 Si confrontino a tal proposito i resoconti del membro della Commissione per la verità e la riconciliazione Pumla Gobodo-Madikizela (2003) con quelli di Eugen de Kock (1998), uno dei sostenitori dell’Apartheid. «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 La sociologa Leigh Payne ha recentemente pubblicato uno studio in cui indaga il ruolo degli estorsori di confessioni nelle democrazie che nascono dopo essersi lasciate alle spalle dittature e genocidi, come Cambogia, Brasile, Argentina e Sud Africa. Nel suo testo Unsettling Accounts [Ammissioni inquietanti] (2008), Payne sostiene che i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani hanno bisogno che nelle società post-dittatoriali venga data loro voce. Le loro voci, sottolinea Payne, potrebbero essere inquietanti e sconvolgenti, ma devono ugualmente far parte delle realtà controverse delle democrazie deliberative. Se Payne mette in guardia circa il fatto che dare una voce pubblica ai colpevoli può finire con l’offrire loro una piattaforma politica (che può essere sfruttata in maniera propagandistica), conclude però osservando che in ultima istanza l’arena pubblica, dove trovano spazio le narrazioni controverse, erode le pretese di legittimità dei colpevoli e il loro impiego sommatorio di una delle manifestazioni del linguaggio della violenza. Il mutato quadro politico della democrazia fa dissolvere la visione totalizzante dei colpevoli. Secondo Payne, lasciare che le testimonianze dei colpevoli vengano ascoltate rafforza in ultima battuta i sistemi democratici nascenti, perché impedisce a questi di imporre a loro volta qualsiasi “nuova tornata” di pretese sommatorie. La giustizia restaurativa va alla ricerca dello spazio di pubblica discussione delle pretese controverse di verità all’interno di strutture deliberative democratiche. Possiamo allora evidenziare due differenti modi di organizzare le nostre vite in questo mondo: da un lato, il linguaggio della violenza con le sue pretese totalizzanti e, dall’altro lato, lo spirito della giustizia restaurativa, che rende possibili la contestazione, l’auto-riflessività e diversi gradi di incertezza. Mentre il primo cerca la coercizione a beneficio proprio, lo scopo a lungo termine del secondo è la salvezza della società a beneficio della comunità. Mi sia ora concesso di far compiere un passo ulteriore a questa linea di ragionamento etico e di condividere alcune idee circa lo sviluppo di una contro-pratica rispetto alle operazioni violente che delegittimano gli altri considerati indesiderati. 4. Riconciliazione, empatia e religione Quando le comunità si trovano alle prese con conflitti politici violenti, la capacità umana di compassione si dissolve velocemente. Il dibattito civile è rimpiazzato dal trinceramento ideologico, dall’auto-giustizia morale e dalle giustificazioni politiche all’uso della violenza. Allo stesso tempo, i percorsi alternativi che immaginano un luogo dove i nemici di oggi siano trasformati nei vicini di domani sono sminuiti come fossero illusioni utopiche di sognatori irrealistici. Dobbiamo però accontentarci di una tale visione ristretta ormai alle soglie della seconda decade del XXI sec.? Io non mi accontento. Ed è per questo che ho lavorato come ricercatore di studi religiosi e mediatore interculturale su ciò che accade a lungo termine quando la «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 storia va per il verso sbagliato, sul male e i traumi collettivi che ci perseguitano, e sulla colpevolezza e il senso di colpa che ci affossano. Ho fatto tutto questo rispetto alla riconciliazione giudeo-tedesca dopo l’Olocausto, alla riconciliazione razziale nell’ambito degli Stati Uniti, e più recentemente al quadro del conflitto israeliano-palestinese. Nelle mie attività degli ultimi vent’anni, ho imparato quanto sia importante lavorare con la memoria collettiva di persone che sono state, nel passato, offese e ferite. Dimenticare la memoria o semplicemente negare il passato non ha mai aiutato a ricostruire la fiducia e a cominciare a lenire le ferite (Krondorfer 1995, 2008). Si può parlare di riconciliazione a diversi livelli, come quello della riconciliazione politica fra precedenti nemici politici, quello della riconciliazione sociale fra gruppi comunitariamente divisi, quello della riconciliazione spirituale fra gli umani e il divino, o quello della riconciliazione interpersonale che opera tramite la dissonanza affettiva e cognitiva sia all’interno di, sia tra gruppi di persone meno estesi, divisi da conflitti passati o presenti (si veda Rosoux 2008). Quando parlo di riconciliazione, mi riferisco solitamente al complesso lavoro di riconciliazione interpersonale in ambienti interculturali e interreligiosi. Lasciatemi però ora ricordare sette elementi essenziali concernenti la riconciliazione interpersonale: La riconciliazione, a un livello più elementare, è il superamento della sfiducia. Riunisce gruppi con storie antagonistiche nel tentativo di ristabilire relazioni di fiducia. La riconciliazione interpersonale in ambienti interculturali è indeterminata. Mira a migliorare le relazioni in crisi, ma non predetermina l’esito. Imporre un risultato a un gruppo per amore dell’armonia e per evitare il conflitto non istituisce alcuna fiducia duratura. La riconciliazione interpersonale è “memoria di lavoro”. La memoria di lavoro presuppone che noi abbiamo bisogno di rielaborare le nostre memorie comunitarie e collettive, non semplicemente di riaffermarle. La riconciliazione alla luce della “memoria di lavoro” richiede una disponibilità ad affrontare la dimensione affettiva della memoria, vale a dire quelle forti emozioni che vengono trasmesse di generazione in generazione in maniera aperta oppure subconscia e non verbale. Tra le emozioni primarie comunitarie ci sono la paura, la vergogna, la sfiducia, la rabbia, la tristezza, il senso di colpa e i concomitanti meccanismi secondari di sopravvivenza. La riconciliazione interpersonale richiede ai partecipanti di prendersi dei rischi in presenza dell’“altro”. Richiede ai partecipanti di diventare vulnerabili e onesti. Non esclude la discussione politica, ma non può mai limitarsi semplicemente a scambi di punti di vista politici. «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 Per sbloccare lo stallo dell’auto-giustizia politica, il lavoro di riconciliazione richiede processi incentrati sul gruppo e creativi. Gli approcci creativi aiutano a sbloccare la paralisi delle politiche dell’identità, del “noi” contro “loro”. Nel lavoro creativo, noi riveliamo l’uno all’altro livelli del nostro essere-al-mondo che vanno al di là del semplice atteggiamento intellettuale, politico o polemico. Il lavoro di riconciliazione richiede empatia. Possiamo parlare, per esempio, di “ricordo compassionevole” o di “dissesto empatico”. Incoraggiare l’empatia verso l’altro può sconvolgere i propri presupposti sul mondo, sulla storia, sulle proprie comunità e famiglia. Il ricordo compassionevole e il dissesto empatico ci rivelano che abbiamo bisogno di prendere coscienza della storia e della presenza dell’Altro così come dei nostri stessi fallimenti morali, complicità e offese. Per compiere il lavoro di riconciliazione che caratterizza la giustizia restaurativa, noi abbiamo bisogno di rafforzare la nostra muscolatura immaginativa dell’empatia e della compassione. Il potere della capacità umana di essere compassionevoli è tale che noi, in quanto umani, possediamo la capacità di trascendere il contesto sociale in cui siamo nati. Io, per esempio, sono nato in Germania con l’eredità di una società colpevole, ma invece di difendere gli errori del passato del mio paese, ho scoperto il potere della vergogna. Dal punto di vista del colpevole, la vergogna è il riconoscimento che la propria capacità umana di prendersi cura del prossimo è stata profondamente tradita – e tale fallimento fa tutt’uno con una responsabilità indiretta nei confronti delle generazioni future. Qualunque mancanza dei miei nonni tedeschi ci sia stata durante l’Olocausto e qualunque mio genitore si sia dimostrato incapace di fare i conti con il proprio passato, è comunque diventata una mia responsabilità quella di lavorare in direzione del miglioramento dei rapporti tra ebrei e tedeschi per amore del futuro (Krondorfer 2000, 2002). E a oggi, non sono un prigioniero del passato. Né mi sono limitato ai ricordi emotivi della storia della mia famiglia e della mia nazione. Attraverso le capacità dell’immaginazione empatica, riesco a intravedere la paura schiacciante e i traumi che i sopravvissuti all’Olocausto e i loro bambini hanno patito, oppure, oltretutto, a prendere consapevolezza del fatto che anche altre persone riconoscono chi sono coloro che vengono trattati in maniera ingiusta nel passato e nel presente. Che ne è però della religione? Vorrei affrontare brevemente il legame tra la memoria e il rinnovamento nella tradizione abramitica, che sono così spesso in prima linea nei conflitti globali di oggi. Il giudaismo, il cristianesimo e l’islam affondano le loro radici molto lontano nel tempo e avanzano rivendicazioni in merito alle nostre identità come esseri spirituali e sociali. Le religioni hanno accumulato un grande patrimonio di saggezza, ma anche macerie di cattive azioni colpose. Tutte e tre le religioni hanno violato i loro stessi precetti e buone intenzioni «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 nel corso delle loro lunghe storie. Infatti, non credo nell’innocenza di nessuna tradizione religiosa. Nel lavoro restaurativo, nessuna tradizione religiosa o gruppo sociale può rivendicare un’innocenza assoluta, né però tutte le colpe devono essere addossate a una sola parte. Allo stesso tempo, dobbiamo essere in grado di definire con accuratezza storica i livelli di senso di colpa, complicità e colpevolezza. Nessuno si presenta a tavola libero dal peso della storia, ma nemmeno siamo per sempre marchiati a fuoco da essa. Nella prospettiva delle tradizioni monoteistiche, il passato avanza un credito sul nostro presente. La memoria religiosa non è soltanto un’accumulazione di fatti storici, ma è un pilastro della spiritualità, una fonte di rivelazione e un meccanismo attraverso cui noi possiamo ritrovare l’identità dei nostri sé morali. Quando i cristiani, per esempio, celebrano la comunione (o eucarestia), essi celebrano il ricordo della presenza di Gesù Cristo nel cuore della loro comunità. «Questo è il mio corpo. […] Fate questo in memoria di me». Quando i musulmani pregano cinque volte al giorno, o digiunano durante il Ramadan annuale, o fanno lo hajj una volta nel corso della loro vita, essi si impegnano in azioni di ricordo. Teologicamente, questo è il concetto di dhikr – un ricordo, una rammemorazione, un’evocazione. L’opposto del dhikr è la dimenticanza, e la dimenticanza porta i credenti musulmani ad allontanarsi dal sentiero insieme a e verso Dio. Quando gli ebrei ricordano l’Esodo durante il loro annuale Seder pasquale o il primo tentativo di eccidio di ebrei durante il Purim, o quando ricordano la distruzione del Tempio a Tisha b’Av o il potere divino di misericordia durante lo Yom Kippur, anch’essi danno enfasi al fatto che la memoria avanza delle richieste spirituali al credente nel presente. Attraverso atti di rammemorazione, il giudaismo, l’islamismo e il cristianesimo invitano l’individuo e la comunità a ritrovare se stessi. Un tale passo fa tutt’uno con la possibilità di rinnovare e rettificare la propria vita passata, chiamata tawbah nell’islamismo, teshuvah nel giudaismo e metanoia nel cristianesimo. Tutti i tre concetti teologici si riferiscono alla capacità di tornare indietro, vale a dire di ritornare a Dio e a un sentiero virtuoso di giustizia. Con ciò, l’atto religioso del ricordo è qualcosa di più di una semplice commemorazione di eventi storici. Esso è la presa di coscienza di un passato la cui presenza deve essere realizzata ora e nel futuro. Questo invito religioso al rinnovamento ci riporta allo spirito della giustizia restaurativa, il quale, credo, è un elemento costitutivo di tutte e tre le religioni – anche se gli organismi religiosi nelle loro manifestazioni storiche hanno il più delle volte dato sostegno all’idea di una giustizia retributiva con le sue punizioni e i suoi castighi. Vorrei concludere con una storia che proviene dalla tradizione cristiana, non perché creda che la tradizione cristiana sia migliore di altre, ma semplicemente perché «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 conosco questa tradizione meglio delle altre. Una volta, quando gli venne chiesto da un uomo di chiarire chi fosse il proprio prossimo, Gesù rispose con la storia di un uomo picchiato, rapinato e abbandonato mezzo morto sul ciglio della strada. Coloro che sembrava avrebbero dovuto rappresentare il prossimo di quest’uomo rapinato e ferito lo ignoravano mentre gli passavano accanto, quando infine una persona con cui non veniva condiviso nessun tipo di legame familiare o di affinità etnica si fermò, si chinò e si prese cura della vittima. Come ci racconta il Vangelo di Luca, «ha avuto compassione di lui» (Lc 10, 29-37). «Chi di questi si è dimostrato suo prossimo?», chiede Gesù a conclusione della parabola del Buon Samaritano. La risposta sembra ovvia: la persona che ha mostrato compassione. Ma è meno ovvia la sfida più profonda che la domanda di Gesù implica. La chiave della parabola non sta nella condanna del prete giudeo o del levita che, nel racconto, hanno ignorato l’uomo ferito. Purtroppo, i cristiani hanno finito troppo spesso con l’usare questa parabola come prova testuale di una presunta insensibilità degli ebrei. Questo però non è affatto il punto di questa storia. Piuttosto, essa ci invita a ripensare a che cosa significhi diventare un prossimo. Un prossimo non è qualcuno che semplicemente abbiamo in ragione della sua vicinanza a noi – indipendentemente se tale vicinanza sia basata sulla parentela, sulla collocazione, sull’etnicità, sulla religione o sulla nazionalità. Noi non abbiamo prossimi, noi diventiamo prossimi. Noi diventiamo prossimi scegliendo di agire in maniera compassionevole. Ciò che la parabola mi rivela è che è attraverso le scelte compassionevoli che noi diventiamo prossimi l’uno all’altro: noi trasformiamo uno straniero in un nostro prossimo tramite atti di compassione e di cura. È a questo punto, tuttavia, che noi troppo spesso finiamo con il fallire. Come individui e famiglie, come comunità e nazioni, noi risultiamo spesso inferiori rispetto alla sfida lanciataci dai nostri profeti e maestri religiosi: estendere la nostra compassione verso uno straniero bisognoso, e di conseguenza – e solo di conseguenza! – diventare prossimi. Quando un’intera nazione fallisce nel compiere questo, apre le porte alla discriminazione su vasta scala e alle violazioni dei diritti umani, nonché, nel peggiore dei casi, alla tortura, al linciaggio, alla pulizia etnica e al genocidio, com’è avvenuto in Germania, Cambogia, Bosnia-Herzegovina, Sud Africa, Stati Uniti, Ruanda e Darfur. Se coltivate e sviluppate in maniera corretta, l’immaginazione empatica e una forma di compassione destabilizzante, che stanno al cuore della giustizia restaurativa, sono elementi indispensabili per la riconciliazione. È una tale empatia ad alimentare la capacità umana di trascendere la limitatezza di ogni azione meramente auto-interessata, per spingere invece in direzione della cura diretta verso gli altri. (Traduzione dall’inglese di Giacomo Pezzano, revisione di Graziano Lingua) «Lessico di etica pubblica», 3 (2012), n. 1 – ISSN 2039-2206 Allen, James. 2000. Without Sanctuary: Lynching Photography in America. Santa Fe: Twin Card, Claudia. 2002. The Atrocity Paradigm: A Theory of Evil. Oxford: Oxford Carmichael, Cathie. 2009. Genocide Before the Holocaust. New Haven: Yale University Cooper, Alan D. 2009. The Geography of Genocide. Lanham: University Press of Currey, James. 2010. Germany’s Genocide of the Herero: Kaiser Wilhelm II, His General, His Settlers, His Soldiers. Cape Town, South Africa: UCT Press. Danner, Mark. 2009. “US Torture: Voices from the Black Sites”, New York Review of De Kock, Eugene. 1998. A Long Night’s Damage: Working for the Apartheid State. Enders, Jody. 2002. 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Source: http://www.eticapubblica.it/public/upload/8.krondorfer_rev.pdf

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An Argument for a Narrow Interpretation1 ABSTRACTThe paper argues for two kinds of limitations on the right to parenthood. First, it claims that the right to parenthooddoes not entail a right to have as many children as one desires. This conclusion follows from the standard justificationsfor the right to parenthood, none of which establishes the need to grant special protection to having as ma

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